La sparizione della ciabatta
Giuseppe Rensi in un ritratto giovanile |
fra una perdurante Italia dell'epoca ispano-austriaca, dei cortigiani e delle schiene curve, e un'Italia libera, anche nello spirito, dall'oppressione, un'Italia d'uomini che sappiano (e, come dovrebbero, lo possano, senza che ci sia bisogno d'essere eroi e pericolo di subire menomazioni o conculcazioni di varia indole) pensare come credono; l'Italia delle schiene dritte. (1)
Maurizio Ferraris |
Ma esiste, poi, la realtà? Esiste il mondo? C'è qualcosa qui fuori di me? Ferraris lo dimostra con l'esperimento della ciabatta. Immaginiamo, dice, che un uomo guardi un tappeto con sopra una ciabatta. Chiede ad un altro di passargliele, e l'altro lo fa senza difficoltà. "Banale fenomeno di interazione, che però mostra come, se davvero il mondo esterno dipendesse anche solo un poco, non dico dalle interpretazioni e dagli schemi concettuali, ma dai neuroni, la circostanza che i due non possiedano gli stessi neuroni dovrebbe vanificare la condivisione della ciabatta" (5).
Consideriamo la faccenda della ciabatta. Vorrei farlo dal punto di vista di una tradizione di pensiero che da qualche millennio si confronta con i temi della realtà e dell'apparenza, e che Ferraris, da bravo filosofo occidentale (o continentale) non prende in considerazione: quella buddhista. Cos'è una ciabatta? E' un oggetto con un suo nome ed una sua forma: nama e rupa. Appartiene indubbiamente al mondo delle cose reali. Noi sappiamo, però, che le cosiddette cose reali non sono la realtà ultima, ma sono a loro volta scomponibili in elementi più piccoli. La ciabatta è fatta di un tessuto che ha una sua trama, sotto la quale ci sono le molecole, e poi gli atomi, fino all'infinitamente piccolo. Tutte queste cose - le molecole, gli atomi eccetera - esistono, sono reali non meno della ciabatta. Se non vediamo questa realtà di atomi, ma la ciabatta, è soltanto perché i nostri occhi sono molto imperfetti. Se avessimo degli occhi perfetti come un microscopio a scansione, non vedremmo più la ciabatta. In altri termini, la ciabatta esiste soltanto a causa della nostra ignoranza (avidya), vale a dire per l'imperfezione dei nostri sensi.
Affinché l'esperimento della ciabatta riesca, non occorre soltanto che io abbia degli occhi imperfetti, che mi consentano di vedere la ciabatta, e non la struttura sottostante, ma anche che io abbia il concetto ed il nome di ciabatta, e che sappia associarlo a quella immagine; e lo stesso vale per il mio interlocutore. E questa, con ogni evidenza, è una cosa che si svolge interamente nella nostra testa. Il fatto che si svolga in due teste contemporaneamente non dimostra che non sia una operazione intellettuale che costruisce il mondo esteriore nel suo aspetto di nome e forma.
Il concetto di vacuità è presente nel buddhismo fin dalle origini, ma è nella tradizione Mahayana che ha trovato la sua espressione filosoficamente più matura. Vacuità (śūnyatā) non vuol dire che nulla esiste, ma che nessun ente esiste al di fuori di una fitta rete di relazioni, che lo costituiscono; pensare un ente come se fosse una realtà sostanziale, individuata, vuol dire illudersi. Questa consapevolezza del vuoto è nel buddhismo per eccellenza ciò che emancipa. E' attraverso la considerazione della vacuità di ogni fenomeno, e della vacuità dello stesso soggetto, che si giunge alla liberazione, al nibbana. Ma non solo. Come afferma Candrakīrti, uno dei più rilevanti pensatori della scuola Mādhyamika (continuatore e commentatore del pensiero del più noto Nāgārjuna)
La vacuità, male intesa, manda in rovina l'uomo di corto vedere, così come un serpente male afferrato o una formula magica male applicata. (6)Ciò che emancipa è anche ciò che manda in rovina; rovesciando il detto di Hölderlin che tanto piaceva ad Heidegger, potremmo dire che dove cresce ciò che salva, aumenta anche il pericolo. Se tutto è vuoto, perché non dovrei uccidere questa persona, che è anch'essa vuota? Dove sarà il male? Se tutto è vuoto, il male non esiste. Ma la realtà assoluta non cancella la realtà relativa, nella quale questa persona esiste e soffre, ed ucciderla è male; posizionarsi nella realtà assoluta e negare così ogni morale vuol dire afferrare male il serpente della vacuità. Le critiche di Ferraris alla negazione postmoderna della oggettività del mondo esterno riguardano, mi sembra, questa possibilità di afferrare male il serpente. E nondimeno è necessario afferrare il serpente.
(1) G. Rensi, Realismo, Unitas, Milano 1925, pp. 6-7.
(2) M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 109.
(3) Ivi, p. 25.
(4) Cfr. A. Vigilante, Il pensiero nonviolento, Edizioni del Rosone, Foggia 2004.
(5) M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, cit., p. 40.
(6) Candrakīrti, Prasannapadā, 24, 11, trad. it. in La saggezza del Buddha, a cura di R. Gnoli, Mondadori, Milano 2004, p. 675.